Un attestato che consegna fiducia e speranza a chi ha sbagliato
LA FORZA DI RICOMINCIARE
Le detenute di Rebibbia terminano il percorso formativo con Formalba e Aless Don Milani
ROMA, DICEMBRE. Terminano tra baci e abbracci i corsi di formazione
professionale di Formalba e Aless Don Milani destinati alle detenute del
carcere femminile di Rebibbia. “Una bellissima esperienza, sia dal punto di
vista formativo che umano” è il commento della Prof.ssa Manuela Romeo,
progettista dei corsi che sintetizza il successo di un percorso didattico unico
nel suo genere per tipologia di allievi e luogo di svolgimento. La cerimonia di
consegna degli attestati, riconosciuti dalla Regione Lazio, si svolge in un
clima di eccezionale normalità, come avvenuto in altre centinaia di casi nel
corso della vita pluridecennale dell’ente di formazione più importante della
provincia di Roma. Gesti che si ripetono, allievi che vengono chiamati a
ritirare il “pezzo di carta”, strette di mano, complimenti, qualche abbraccio,
qualcuno che ringrazia in modo esitante, qualcun altro in modo più spigliato,
discorsi ufficiali, rinfresco a fine cerimonia. Tutto sembrerebbe decisamente
ordinario, se non fosse per l’eccezionalità del luogo e del contesto dove si è
svolto l’atto conclusivo dei corsi di Aiuto Cuoco e Assistente Familiare, che
hanno qualificato questo gruppo di insolite studentesse. Insolite perché non
capita tutti i giorni, per docenti e organizzatori, di venire a contatto con il
mondo della reclusione. Soprattutto, per chi non è mai venuto a contatto con
questa particolarissima realtà, è difficile abbinare ragionamenti e
considerazioni a persone concrete. Talvolta ci sembra di parlare di un altro mondo,
di qualcosa che, fortunatamente, non ci tocca personalmente e che ricade nel
mondo dell’astratto e dei luoghi comuni. E invece, questa esperienza ci
consente di conoscere volti, voci e storie di chi vive, per un periodo della
sua esistenza, al di là del portone blindato, delle mura e dei fili spinati. Un
mondo diverso, senza telefonini e contatti diretti con l’esterno. Un mondo
fatto da donne che pagano il loro debito con la comunità civile, della quale
hanno infranto regole e provocato danni e dolori a cose e persone. Ma anche di
persone con le loro sofferenze, le loro fragilità e le loro speranze di
ricostruirsi una vita “normale” una volta varcato verso l’esterno il portone
blindato di Via Bartolo Longo. Una umanità variegata, con tante storie da
raccontare o da dimenticare, come quella della studentessa universitaria che
ritrova tra i docenti del corso proprio la sua professoressa. “Quanto ti ho
dato all’esame?” - scherza la prof. “Trenta” – sorride la ragazza. “Allora ti
aspetto per la laurea!” Una lacrima e un abbraccio forte, di quelli veri, di
quelli che ti fanno sperare che questa sia davvero una parentesi da dimenticare
in fretta. C’è la zingara che ringrazia tutti con un fiume di parole e che bisogna
zittire se non si vuole fare notte. C’è la ragazzina sudamericana che dice di
voler tornare a casa sua, con negli occhi la delusione di chi sperava di
trovare l’eldorado da questa parte dell’oceano. Ma quello che emerge con forza
è il legame che si è creato tra chi ha frequentato il corso e chi lo ha
proposto e realizzato. Quasi tutte donne, che hanno saputo e voluto realizzare
una cosa bella. Perché, nel paese di Cesare Beccaria, accanto a concetti
condivisibili come certezza della pena, occorrerebbe affiancare anche concetti
come certezza del reinserimento o, quantomeno, messa a disposizione di
strumenti per ricominciare. Perché se è giusto che la società abbia il diritto
sacrosanto di giudicare e punire, ha anche il dovere di rieducare chi ha
sbagliato e, una volta pagato il suo debito, essere reinserito nella comunità
civile. Le parole che si rincorrono in questi casi sono quasi banali da
ricordare: opportunità, riconoscenza, condivisione, ringraziamento, speranze, auguri.
Parole normali, che diventano straordinarie in un mondo dove la normalità è
straordinaria.
Marco Giustinelli
Ufficio Stampa Formalba